27.09.2018
    La Corte Costituzionale boccia le tutele crescenti. Rischio caos

    La Corte Costituzionale, finalmente dopo una lunga attesa di tutto il mondo lavoristico e giuslavoristico, ha dichiarato illegittimo l’articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n. 23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte non modificata dal successivo Decreto Dignità D.L. n 87/2018, che determinava in modo inconfutabile ed inattaccabile l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. In particolare, “salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennita’ non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilita’ dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilita’”.

    Ergo, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore. Secondo la Corte, ciò è oggetto di censura, perchè ritenuto un criterio rigido e pertanto contrario ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza ed in contrasto con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. Art. 4 “La repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la proprio scelta, una attività o una funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della società.” Art. 35 “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro”.

    Tale decisione trascinerà con sé anche gli indennizzi per le aziende che hanno fino a 15 dipendenti, ex art. 9 del Dlgs 23/2015. Nel caso di aziende fino a 15 dipendenti la misura era dimezzata: 1 mensilità e comunque non inferiore a 3 e non superiore a sei mensilità.

    Il giudice non dovrà più stabilire gli indennizzi in base agli anni di servizio ma fermi restando i limiti minimi e massimi dell’indennità, deciderà il risarcimento del lavoratore valutando la gravità del singolo caso. Il giudice finirà per tenere conto anche delle differenze di settore e di territorio, della tipologia di azienda, della situazione personale del lavoratore come i carichi di famiglia. In buona sostanza, un dipendente licenziato in modo pretestuoso, senza quindi che ricorrono gli estremi della rottura negoziale, e che abbia carichi familiari gravosi (figli a carico, genitori anziani, situazioni di handicap…) potrebbe vedersi riconosciuto giudizialmente un indennizzo pari a 36 mesi di retribuzione, anche assunto solo da qualche mese, rispetto ai 6 mesi della norma cassata dalla Corte Costituzionale.

    Il Jobs Act aveva l’obiettivo di evitare il controllo dei giudici sulle scelte d’azienda. In sostanza si incentivavano le aziende ad assumere dando certezza sui costi di eventuali licenziamenti ingiustificati: l’imprenditore sapeva che il giudice aveva le mani legate e non poteva che quantificare una somma già determinata nel criteri di calcolo, sulla base dell’anzianità. Con la convinzione che così le imprese non avrebbero avuto più paura ad assumere a tempo indeterminato.

    Ma tale decisione della Consulta, oltre a generare incertezza nel mondo imprenditoriale facendo contrarre in prospettiva le assunzioni a tempo indeterminato apre la strada alla preferenza verso la scelta discrezionale del giudice, che vede d’incanto ampliare il proprio potere nella determinazione degli effettivi economici delle sue sentenze. Tale maggiore libertà decisionale comporta un grave rischio: fattispecie uguali tra loro potranno essere decise in maniera molto diversa dai giudici che potranno aderire ad orientamenti ed interpretazioni i cui criteri sono idiosincratici tra loro. Potremmo trovarci ad un paradosso: si va a realizzare un assetto normativo che potrà generare disparità tra situazioni identiche, aggredendo proprio quei criteri di ragionevolezza ed uguaglianza dichiarati dalla Consulta.

    La misura della Consulta impatterà anche sui licenziamenti collettivi nel caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, o dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991, vedrà applicarsi il regime di cui all’articolo 3, comma 1, con la piena discrezionalità del giudice entro i range minimo e massimo.
    Resta inteso che non è presente alcun effetto per i casi di accordo tra le parti che andavano in deroga al Jobs Act. Ossia, le intese con cui il datore di lavoro, a tutolo di benefit, di condizione di miglior favore, si impegna ad applicare l’art 18 dello statuto dei lavoratori in caso di licenziamento. Pattuizioni negoziali la cui tenuta sarà da verificare, dal momento che il giudice sarà chiamato ad esprimersi sulla base delle norme vigenti ed applicabili al contratto di lavoro e non su accordi negoziali derogatori. In deroga a quanto previsto dall’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 7 marzo 2015, n. 23, come condizione di miglior favore, le parti legittimate, possono convenire che nel caso di licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 1 del D.Lgs. n.23/2015, nei soli casi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, in luogo della dichiarazione giudiziale di estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento, troverà applicazione la reintegra ex nunc (dal giorno della sentenza) unitamente alla corresponsione di una indennità’ forfettaria sino ad un massimo di 12 mensilità al netto del potenziale percepito o percipiendo (aliunde perceptum; aliunde percipiendum) quale ristoro delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento sino alla data di reintegrazione. Per tutte le altre fattispecie di licenziamento illegittimo troveranno applicazione i regimi di tutela di cui al D.Lgs n. 23/2015.

    Restano esenti effetti sull’offerta di conciliazione che risulta regolata in modo autonomo dall’articolo 6 del D.lgs 23/2015. L’offerta della conciliazione, potrà essere fatta solo dopo il licenziamento ma entro 60 giorni dalla sua ricezione ed avrà un contenuto economico non libero ma vincolata e predeterminata legalmente, in tale misura: n. 1 mensilità delle retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr, per ogni anno di lavoro, con una misura minima non inferiore a tre e non superiore alle 27 mensilità. Per le aziende fino a 15 dip. per effetto del previsto dimezzamento, avremo: meta’ dell’ultima retribuzione utile ai fini del Tfr (0,5) per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore ad n. 1,5 mensilità e non superiore a 6 mensilità.

    Nota elaborata dal Centro Studi di Alleanza Lavoro.

    26.09.2018
    Licenziamento per rifiuto del lavoratore alla riduzione dell’orario di lavoro

    L’art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015 stabilisce che il rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale – o viceversa – non costituisce giustificato motivo di licenziamento.

    Il tribunale di Roma, primo grado, (Tribunale di Roma, 1a Sez. Lav., 27 giugno 2018, n. 5502; Giud. Pangia ) richiama l’orientamento espresso dal giudice di legittimità (Cass. 27 ottobre 2015, n. 21875) in base al quale la norma (allora si trattava dell’art. 5 D.Lgs. n. 61/2000, di identico tenore) va interpretata alla luce della normativa comunitaria e della giurisprudenza costituzionale, sicché restano comunque salve le effettive esigenze economiche ed organizzative del datore di lavoro, la prova della cui sussistenza incombe su quest’ultimo.

    La Corte Suprema ha posto in rilievo come la clausola 5.2 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale – Clausola 5: Possibilità di lavoro a tempo parziale – 2. Il rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno ad uno a tempo parziale, o viceversa, non dovrebbe, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento, senza pregiudizio per la possibilità di procedere, conformemente alle leggi, ai contratti collettivi e alle prassi nazionali, a licenziamenti per altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato – recepita nella direttiva 97/81, fa salva «la possibilità di procedere, conformemente alle leggi, ai contratti collettivi e alle prassi nazionali, a licenziamenti per altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato». La Consulta ha chiarito (Corte Cost. 19 luglio 2013, n. 224) che l’accordo quadro, così esprimendosi, accanto alla protezione del lavoratore dalla trasformazione unilaterale del rapporto ad iniziativa del datore di lavoro, prende pure in considerazione le esigenze organizzative di quest’ultimo, purché l’iniziativa datoriale sia sorretta da serie ragioni organizzative e gestionali ed attuata nel rispetto dei principi di correttezza e di buona fede.

    Come dire che, affinché il rifiuto del dipendente di consentire la riduzione dell’orario di lavoro possa costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento occorre che il datore di lavoro dia prova delle effettive esigenze aziendali che non consentono la prosecuzione del rapporto lavorativo con l’osservanza dell’orario originariamente assegnato al lavoratore. Pertanto, l’onere della prova della sussistenza delle ragioni giustificatrici ricade ovviamente sul datore di lavoro. Ciò deve portare il datore di lavoro a leggere ed applicare le norme oltre che sulla base dello spirito del proprio legislatore anche e soprattutto rispetto alla sovrastante normativa comunitaria, in grado, talvolta, di illuminare la strada di una organica interpretazione della legislazione dello stato membro. La norma deve essere sempre letta non in una chiave restrittiva, chiusa nell’alveo della cultura endogena bensì in una dimensione di combinato disposto tra una dimensione esogena e l’universo endogeno del tessuto normativo.

    Nota del Centro Studi di Alleanza Lavoro Network che rimane a disposizione per eventuali approfondimenti anche in chiave operativa.

    20.09.2018
    La Cassazione si pronuncia su causale e tempo determinato: quali soluzioni per ridurre il contenzioso?

    Con sentenza n. 22188 la Suprema Corte, ha sancito forse meglio ribadito un principio moto importante con riferimento ad una controversia che riguardava la validità del contratto a tempo determinato a fronte di una causa, ex art 1, Dlgs 368/2001. Il decreto in questione sanciva ovvero condizionava la stesura negoziale e quindi la validità della tenuta dell’apposizione di un termine alla presenza delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Come è di nostra conoscenza, tale disposizione fu brillantemente superata dal DL 34/2014 (cd. decreto Renzi-Poletti) che rese il tempo determinato libero da ogni mostruosità foriera di lacci e lacciuoli di cui alla causale. Tornando alla disciplina del Dlgs 368/2001, è di dominio giuslavoristico il concetto per cui il contratto a termine veniva travolto da una nullità ab initio, in assenza di una causale scritta in modo dettagliato, specifico, esaustivo ed analitico. Inoltre, la Cassazione afferma un secondo principio fondamentale: la specificazione consente di garantire una limpida tasparenza non solo della motivazione sottostante ma consente altresì di verificare come la mansione a cui è stato adibito il lavoratore sia effettivamente tale da essere propedeutica, funzionale al soddisfacimento ed al raggiungimento della causale stessa.

    Questa pronunzia deve porre il lettore nella sacrosanta poszione concettuale che il decreto dignità non farà altro che inasprire la riproposizione delle motivazioni di ricorso, atteso il fatto che le stesse sono congeniate e riproposte con una formula legislativa alquanto ermetica, ed oscurantista. Sono condizioni difficilmente praticabili che nascono molto probabilmente dall’obiettivo drastico di un ridmensionamento dei contratti a termine, che di fatto si attesteranno su un quid massimo di 12 mesi. Tra l’altro l’aspetto è decisamente più pesante, se teniamo conto del fatto che il legislatore ha escluso l’intervento della contrattazione collettiva relativamente alle causali, tarpando le ali alle parti sociali, con la impossibilità di inserire motivazioni più tarate sulle vere esigenze del settore mereologico.

    Esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’attività, ovvero per esigenze sostitutive di altri lavoratori; sigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria. Il D.L. n. 87/2018 “rimette in campo” le causali, riprendendo alcune motivazioni già presenti nella legge del 1962, con una fraseologia che richiama indirizzi giurisprudenziali espressi sotto la vigenza di quella norma ma di indubbia e difficile traduzione pratica. L’unica possibilità di intervenire sul dettato normativo, è riservata alla contrattazione territoriale od aziendale di cui alle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, a condizione che l’accordo, efficace nei confronti di tutti i lavoratori sia sottoscritto sulla base di un criterio maggioritario e nel rispetto delle norme legali e degli accordi interconfederali vigenti, secondo la previsione contenuta nell’art. 8 del D.L. n. 138/2011 convertito, con modificazioni, nella legge n. 148. che prevede una serie di ipotesi sulle quali può esercitarsi il potere derogatorio: tra questi (comma 2, lettera c) c’è il contratto a termine. Il famigerato contratto di prossimità del “berlusconismo”. Però a due condizioni che possono così sintetizzarsi:

    – Presenza di un “obiettivo di scopo”: essi sono individuati al comma 1 nella maggiore occupazione, nella emersione del lavoro irregolare, negli incrementi di competitività e di salario, negli investimenti e nell’avvio di nuove attività
    – Rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali: ciò significa che l’eventuale accordo, derogatorio della legge, dovrà rispettare, “in primis”, la Direttiva Comunitaria 1999/70CE sui contratti a tempo determinato: questo, come ben evidenziato da parte della dottrina, potrebbe portare ad identificare una utilizzazione senza causale per un periodo superiore ai 12 mesi, giustificato, magari, nell’ottica “dell’obiettivo di scopo” della maggiore occupazione. Ovvero, con la previsione di causali più plausaibili con la realtà produttiva territoruale e/o aziendale unitamente ad un periodo di 36 mesi.

    Stante così la situazione, la recente sentenza della cassazione non fa altro che riproporre con una maggiore enfasi, le problematiche connesse all’introduzione di una causale, specifica, dettagliata ma soprattutto anacronistica ed idiosincratica rispetto al tessuto produttivo odierno, e quindi nella difficoltà di pianificare mansioni in grado di soddisfare la realizzazione di una esigenza aziendale che assumerà le vesti di una paurosa figura mitologica. Accentuerà il turn over, la destabilizzazione occupazionale. Quale è il rimedio? Ricorrere alle Agenzie per il lavoro, in grado di garantire maggiore flessibilità e formule contrattuali che inneggino alla stabilità tutelata. Le aziende faranno bene a nutrirsi della professionalità e delle strategie risolutive che le Agenzie per il lavoro sono e saranno sempre più in grado di immettere sul mercato.

    22188 la sentenza.

    18.09.2018
    Part-timers e 20%, contratti a tempo determinato diretto, somministrati e staff leasing

    La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro con Parere n. 2/2014 era tornata ad affrontare alcune novità introdotte dalla legge 78/2014 con particolare riferimento ai criteri di calcolo del limite di contingentamento dei lavoratori a termine. La questione sottoposta a parere riguardava in modo specifico le modalità di computo dei lavoratori part-time sia nella base di calcolo del 20% sia nel numero dei lavoratori che possono essere assunti. La Fondazione giungeva alla conclusione che i lavoratori a tempo parziale devono essere computati sempre in proporzione all’orario svolto. Pertanto per le aziende fino a 5 dipendenti in cui è possibile assumere un lavoratore a termine, secondo la Fondazione la norma consentiva anche l’avvio di due part-time al 50%. Il tutto era sorto poiché il Ministero chiariva solo che nella base di calcolo del 20%, i lavoratori a tempo parziale dovevano essere computati in proporzione all’orario svolto rispetto al tempo pieno, nel rispetto della disciplina speciale del contratto a tempo parziale contenuta nell’articolo 6 del D.Lgs. n. 61/2000. Il Ministero evidenziando esclusivamente la percentuale del 20% ai soli fini del computo della base di calcolo dei lavorati , sembrava far capire che l’assunzione di un lavoratore part-time a tempo determinato valeva una unità e non in proporzione all’orario effettivamente svolto. Finalmente, l’ Art. 9 del dlgs 81/2015 in tema di Criteri di computo dei lavoratori a tempo parziale, ci dice, chiarendo come 1. Ai fini della applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro, i lavoratori a tempo parziale sono computati in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno. A tal fine, l’arrotondamento opera per le frazioni di orario che eccedono la somma degli orari a tempo parziale corrispondente a unità intere di orario a tempo pieno. Pertanto è oramai lecito Ritenere che ai fini del computo dell’ assumendo cioè del soggetto all’atto dell’assunzione, il raggiungimento del 20% o 30% , per espressa volontà legislativa , vede l’assunzione di un lavoratore part-time a tempo determinato valevole non più come una unità ma in proporzione all’orario effettivamente svolto. In sostanza va riproporzionato secondo norma generale. Tutto ciò significa che una saggia gestione in regime di turnazione, ex art. 5 del Dlgs 81/2015, del part- time, consentirà alle imprese un valido utilizzo della somministrazione a tempo determinato (30%) e dello staff leasing (20%) nonché del td diretto.

    14.09.2018
    Licenziamento di lavoratore somministrato: attenzione ai termini (Nota del Centro Studi)

    Spesso accade nel complesso mondo della somministrazione di lavoro, come l’esercizio del potere disciplinare da parte dell’agenzia per il lavoro, venga reso complicato da alcuni comportamenti scolastici dell’impresa utilizzatrice. In specie alcune titubanze scarsamente fondate piuttosto che negligenti dimenticanze, portano all’irrogazione del provvedimento disciplinare oltre la scadenza prevista dal ccnl.
    La Corte di Cassazione con una recente sentenza afferma come il licenziamento oltre il termine previsto dal contratto collettivo di lavoro equivale ad implicita ammissione dell’insussistenza del fatto contestato.
    All’origine della sentenza, vi è il recesso in tronco intimato a un dipendente di una società per assenze ingiustificate, il quale ha impugnato il licenziamento per mancato rispetto del termine di dieci giorni previsti dal ccnl in merito all’irrogazione della sanzione disciplinare. Per la Corte, il mancato rispetto del termine finale previsto per il licenziamento dal ccnl, determina automaticamente l’insussistenza degli addebiti contestati e conseguentemente, di una giusta causa di recesso (per il caso in specie). In specie, decorso tale periodo, le giustificazioni devono ritenersi accolte.
    La Corte ha precisato come la norma contrattuale collettiva, nel momento in cui ricollega al ritardo della sanzione disciplinare, la conseguenza di un’accettazione delle giustificazioni, ancorché inserita in un contesto di norme procedurali, ha rango di norma fondamentale e sostanziale, che regola il corretto potere disciplinare. Ecco, quindi, come l’art 35 comma 6, del D.lgs n.81/2015, nella sua veste sintattica (” Ai fini dell’esercizio del potere disciplinare, che è riservato al somministratore, l’utilizzatore comunica al somministratore gli elementi che formeranno oggetto della contestazione ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 300 del 1970. ) deve essere necessariamente riletto alla luce della sentenza della cassazione, al fine di evitare pericolosi errori formali con ricadute sostanziali, e la considerazione dell’inefficacia del licenziamento per il mancato rispetto di un termine procedurale. Illegittimità di un provvedimento disciplinare, poiché l’addebito mosso a carico del lavoratore era venuto a cadere per l’Intervenuta implicita ammissione da parte del datore di lavoro della insussistenza della condotta illecita che rendeva il fatto contestato non più configurabile come mancanza sanzionabile.

    12.09.2018
    Somministrazione fraudolenta: le ipotesi. (Nota del Centro Studi)

    Si parla di dignità di cui al decreto. Forse l’unico elemento di vero restyling a difesa del lavoratore e del mondo delle Agenzie per il lavoro è costituito dalla rinascita della somministrazione fraudolenta. Con riferimento all’ipotesi in cui la somministrazione fraudolenta sia posta in essere da un soggetto non autorizzato e non iscritto all’Albo delle Agenzie per il lavoro di somministrazione, è palese a livello ontologico come non possa giustificarsi una somministrazione di lavoro (a tempo determinato o indeterminato) che si connoti a priori per essere illegale nel senso di “abusiva” (e cioè svolta da soggetto privo della necessaria autorizzazione ministeriale), con una finalità chiaramente e speditamente elusiva rispetto alle previsioni normative, di natura contrattuale o legale, in materia di lavoro, con riguardo al trattamento retributivo, previdenziale ed assicurativo dei lavoratori abusivamente somministrati ed illecitamente utilizzati.
    Si ha somministrazione fraudolenta, allora, anche in presenza di una somministrazione in sé e per sé perfettamente lecita e regolare, perché attuata con soggetto legalmente autorizzato e iscritto all’Albo delle agenzie per il lavoro, ma eseguita e realizzata in elusione di legge o di norme contrattuali collettive, come, a mero titolo di esempio, nei casi in cui:
    – un datore di lavoro, rivolgendosi alla Agenzia per il lavoro autorizzata alla somministrazione, utilizza, senza soluzione di continuità, quali lavoratori somministrati a termine, i medesimi soggetti già assunti direttamente a tempo determinato nei periodi di obbligatoria interruzione fra un contratto di lavoro subordinato a termine e il successivo;
    – un datore di lavoro, rivolgendosi alla Agenzia per il lavoro autorizzata alla somministrazione, utilizza, quali lavoratori somministrati a termine, i medesimi soggetti già assunti direttamente a tempo determinato per 12 mesi, eludendo l’obbligo di individuare la causale giustificativa che incombeva nel rinnovo o nella proroga del rapporto di lavoro a termine;
    – un datore di lavoro, rivolgendosi alla Agenzia per il lavoro autorizzata alla somministrazione, utilizza, quali lavoratori somministrati a termine, i medesimi soggetti già assunti direttamente a tempo determinato per 24 mesi, eludendo l’obbligo di assunzione a tempo indeterminato o di ulteriore contratto a termine di 12 mesi attivando l’apposita procedura presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro, che incombeva nel rinnovo o nella proroga del rapporto di lavoro a termine;
    – un datore di lavoro utilizza, quale lavoratore somministrato a termine, lo stesso soggetto già assunto direttamente in azienda e poi licenziato per essere assunto dalla Agenzia per il lavoro autorizzata alla somministrazione e inviato in missione presso l’ex datore di lavoro, quale utilizzatore, in seguito a somministrazione di lavoro, eludendo le norme contrattuali collettive in materia di anzianità lavorativa;
    – un datore di lavoro, rivolgendosi ad una nuova Agenzia per il lavoro autorizzata alla somministrazione, utilizza, quali lavoratori somministrati a termine, i medesimi soggetti già assunti da altra Agenzia per il lavoro e utilizzati in azienda fino alla durata massima prevista per il singolo contratto di somministrazione di lavoro a termine;
    – una somministrazione a tempo indeterminato viene più volte riproposta presso lo stesso utilizzatore da una o più agenzie di somministrazione, con l’effetto di dare vita a singoli periodi di somministrazione, di fatto a tempo determinato, in ipotesi in cui la ditta utilizzatrice applica un contratto collettivo di lavoro che stabilisce un limite quantitativo alla somministrazione a tempo determinato di fatto superato con l’artificio fraudolento.

    20.08.2018
    Il testo del D.lgs. n.81/2015 aggiornato con la Legge 96/2018 (cd. dignità)

    Abbiamo aggiornato il d.lgs. n. 81 del 2015 con le norme contenute nella legge di conversione del cd Decreto Dignità.

    Per il documento clicca quiD.lgs. 81.2015 modificato l.96.2018 dignità.

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